Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore

Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore

Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore

 ­Dal 14 giugno al 18 settembre 2022 la Galleria Borghese presenta Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore, a cura di Maria Giovanna Sarti, una mostra dossier nata in occasione del prestito di Ninfa e pastore, opera autografa realizzata dal Maestro veneto intorno al 1565, concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna nell’ambito di un programma di scambio culturale tra le due istituzioni.

L’incontro tra l’opera di Vienna e i dipinti di Tiziano presenti alla Galleria ha creato l’occasione per mettere in connessione le opere intorno ad alcuni temi costanti nella produzione del pittore: la Natura, intesa come paesaggio ma anche luogo dell’agire umano; l’Amore nelle sue diverse forme, divino, naturale, matrimoniale; e il Tempo, che scandisce la vita dell’uomo, ne regola il ciclo e lo assimila all’armonia dell’Universo.

Natura e Amore sono legati da un rapporto armonico, parte del ciclo della Vita, cui allude l’allegoria amorosa e musicale di Ninfa e pastore, tra le ultime opere del maestro, considerata da alcuni la summa delle sue aspirazioni artistiche.

La mostra trova il suo luogo naturale nella sala XX, al primo piano del museo, dove sono già esposti dipinti di scuola veneta e di Tiziano. L’attuale disposizione di Amor sacro e Amor profano e di Venere che benda Amore – posti uno di fronte all’altro – ha suggerito la collocazione di Ninfa e pastore lungo l’altro asse, di fronte a Le tre età sulla parete opposta, qui proposto nella replica di Sassoferrato che nel corso del Seicento copia – con ogni probabilità proprio per i Borghese – una versione presente a Roma del dipinto di Tiziano. Ninfa e pastore è il pendant perfetto del dipinto sulla parete opposta: si tratta della medesima riflessione, ma alla fine della vita del vecchio pittore, sull’amore, sul tempo che scorre e tutto divora.

Quasi a commento, tematico o stilistico, di questo intenso dialogo, troviamo l’Adamo e la Eva di Marco Basaiti, due cantori pseudo giorgioneschi e altri due Tiziano, il Cristo flagellato e il San Domenico, cronologicamente vicini ai dipinti più tardi del pittore presenti in sala. Completa la mostra il problematico dipinto – prima riferito a un prototipo del Veronese, ma attualmente ritenuto una tarda derivazione da un modello tizianesco perduto – raffigurante Venere, Amore e un satiro, posto a commento di Venere che benda Amore.

La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Art’em, con i testi della curatrice Maria Giovanna Sarti.

In occasione della mostra sarà pubblicato il primo numero della collana Galleria (De Luca editore) che intende approfondire in maniera monografica temi e opere della collezione Borghese. Il primo numero è dedicato a Tiziano, in particolar modo al dipinto Venere che benda Amore e alla produzione degli ultimi anni, su cui sono state condotte recenti indagini diagnostiche i cui risultati sono presentati per la prima volta.

 

Introduzione alla mostra

Tiziano


Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore è una mostra dossier che nasce in occasione del prestito concesso dal Kunsthistorisches Museum di Vienna della Ninfa e pastore di Tiziano, nell’ambito di un programma di scambio culturale tra le due istituzioni.

L’incontro tra la tela di Vienna e i Tiziano della Galleria Borghese – Amor sacro e Amor profano e Venere che benda Amore – ha dato modo di mettere in dialogo le opere intorno ad alcuni temi sempre presenti nella produzione del pittore: la Natura, paesaggio simbolico e luogo dell’agire umano; e l’Amore, restituito nelle sue diverse forme, di amore divino, naturale, matrimoniale, personificato da Venere o da una ninfa, da una giovane ragazza o da una sposa.

Natura e Amore sono strettamente legati e parte del ciclo della Vita, in un rapporto armonico al quale allude l’allegoria amorosa e musicale della Ninfa e pastore. È questo l’ultimo episodio di una ricorrenza avviata dal primissimo Tiziano con le Tre età dell’uomo (Edimburgo), qui proposto nella replica di Sassoferrato (dai depositi del Museo).

La mostra dossier trova il suo luogo naturale nella sala XX, dove sono già esposti i dipinti di scuola veneta, e di Tiziano. I dialoghi sulla Natura e sull’Amore si attivano quindi tra Amor sacro e Amor profano e Venere che benda Amore, già collocati uno di fronte all’altro; e tra Ninfa e pastore e Le tre età dell’uomo da Tiziano, posti lungo l’altro asse.

In sala si trovano altri dipinti che possono considerarsi quasi un ulteriore commento a questi dialoghi: tra di essi, il problematico dipinto raffigurante Venere, Amore e un satiro, posto in relazione con Venere che benda Amore.

 


Ninfa e pastore

Tiziano


 

Tiziano, Ninfa e pastore, 1570- 1575 olio su tela, cm 149,6 x 187 Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1825

Non sono note le notizie sulla committenza di questo dipinto, sempre riferito alla produzione molto tarda di Tiziano. È invece ampiamente accertata la provenienza dall’importante raccolta del mercante veneziano Bartolomeo dalla Nave, acquistata dal visconte Basil Feilding, ambasciatore straordinario inglese a Venezia, per conto del cognato James, terzo marchese di Hamilton: senza pagare dazio, a Feilding fu consentito di caricare sopra un vascello inglese, tra l’altro, venti casse di quadri, segnate all’esterno con l’arme dell’ambasciatore, che arrivarono a Londra nell’ottobre del 1638. Il dipinto, registrato come Venere e Adone, rimase presso la residenza del duca di Hamilton fino al 1643, quando, a seguito delle vicende della guerra civile, i quadri furono confiscati, affidati a Feilding e poi, dopo la sua morte nel 1649, messi in vendita e acquistati dall’arciduca Leopold Wilhelm andando ad arricchire significativamente la sua collezione d’arte, conservata fino al 1656 a Bruxelles, dove l’arciduca risiedeva come governatore dei Paesi Bassi, e quindi trasferita a Vienna, dove, prima di entrare nelle collezioni imperiali (1662), fu presso la residenza personale dell’arciduca (Stallburg) ricordata da un inventario (1659) come “Nimpfa” e “Hierth”, cioè Ninfa e pastore.

Si tratta di un’indicazione che rinuncia ad indentificare i protagonisti per considerarli in un contesto pastorale, ma non bucolico, dell’ambientazione complessiva. La scena si svolge infatti in un paesaggio, accennato nei suoi elementi essenziali, tracciato a “colpi rissoluti, con pennellate massiccie di colori”, quella tecnica così ben descritta da Palma il Giovane, che era stato nella bottega di Tiziano, nel racconto riportato da Marco Boschini.

Questa natura, solo apparentemente informe, è lo spazio di azione della coppia di giovani e del capro, intento a cibarsi di un ramo che si staglia contro il cielo, ben lontano da sembrare abbozzato, costruito invece macchia su macchia con il preciso intento di restituirlo denso e inquieto, per il tramite di “colpi” di rosso e più spessi impasti di biacca.

Il primo piano è interamente occupato dai due protagonisti principali di questo racconto: il giovane è seduto su un rialzo naturale creato dal terreno, tiene l’accordo di un flauto a becco che tuttavia non suona, guarda la donna, girata di spalle e distesa su un fianco accanto a lui, colta nell’attimo di voltarsi verso il compagno di questo gioco d’amore, senza tuttavia giungere a incrociarne lo sguardo. La fanciulla è adagiata su una pelle maculata di leopardo che le fa da giaciglio, e che, per la parte della coda, è appoggiata sulla spalla destra del giovane; i piedi, pure scalzi, sono distesi su un tappeto erboso, di cui sono evidenziati i ciuffi d’erba per mezzo di  “pennellate massiccie” di giallo; è quasi completamente nuda, e quel sottile drappo sul tono del bianco misto a giallo oro non le copre che una spalla, per poi ricadere morbido sulla schiena, lasciata scoperta, fino a cingerle la vita; mostra solo una mano, indolente, con la quale sembra accarezzarsi, aggiungendo dunque carica erotica ad un contesto già assai esplicito. I due personaggi sono sotto una quercia, tra i pochi elementi davvero “naturali” di una natura per nulla arcadica: l’altro è il ramo frondoso di cui si ciba il capro, sola parte viva, ma ancora per poco, di un albero di cui rimane un tronco, già in parte inesorabilmente secco.

 

Strettamente legate ai tentativi di comprensione della scena, sono le diverse ipotesi volte all’identificazione dei due protagonisti: da abitanti dei boschi in un mondo di natura, e dunque una ninfa e un pastore, ad allegoria del rapporto in chiave platonica tra i sensi della vista e dell’udito, ovvero Diana e Endimione, Dafni e Cloe, Medoro e Angelica, Orfeo e una Menade. Oppure Paride ed Enone, secondo la lettura di Erwin Panofksy (1969). I due personaggi sono stati anche identificati come Arianna e Dioniso: a Bacco si riferirebbero la corona di pampini che cinge il capo del giovane e la pelle di leopardo; mentre la giovane sdraiata, forse appena sveglia vista la estrema rilassatezza del corpo, potrebbe di conseguenza alludere ad Arianna.

Sebbene l’individuazione dei protagonisti possa aiutare a circoscrivere un contesto di riferimento, mitologico con tutta probabilità, il significato rappresentato è universale, e sempre riconducibile per il vecchio Tiziano a un malinconico, inutile rimpianto per un umanesimo, e per una umanità perduta.

Non è un caso che qui venga usato un tema già affrontato nel corso della sua produzione e in particolare nelle Tre età di Edimburgo. Con alcune significative differenze: nel dipinto di Edimburgo il giovane è quasi completamente nudo, qui è ben vestito benché scalzo; là si contano tre flauti – uno, quello del giovane, ben poggiato a terra, gli altri due nelle mani della fanciulla – qui il giovane tiene l’accordo dell’unico flauto presente; là la donna è vestita, ed è protagonista del gesto amoroso, qui è nuda, e distesa a terra. Le ambientazioni paesaggistiche delle due opere dipinti sono apparentemente quanto più di diverso si possa immaginare, certo anche grazie alla distanza cronologica che li separa: in entrambi le scene si concretizzano però in una Natura che è luogo dell’agire degli uomini e riflesso significante delle loro tensioni, cadute, ambizioni. Che alla fine di una vita spesa alla ricerca del tocco d’oro, diventa pensiero malinconico sulla inutilità dell’esistenza, rifiuto della dimensione arcadica e presenza dirompente nella storia, del tempo che divora ogni cosa.

 

Amor sacro e Amor profano

Tiziano


Tiziano, Amor sacro e Amor profano, 1514-15 olio su tela, cm 118 x 278 Roma, Galleria Borghese, inv. 147

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amor sacro e Amor profano è stato oggetto di numerosissimi studi. La critica moderna, seppur con qualche divergenza, tende a leggere il dipinto come una allegoria matrimoniale, commissionato in occasione delle nozze celebrate il 17 maggio 1514 tra il veneziano Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto: gli stemmi delle due famiglie, posti quasi in asse l’uno con l’altro, compaiono rispettivamente sul fronte della fontana/sarcofago e sul fondo del bacile d’argento.

Laura era figlia del padovano Bertuccio Bagarotto, coinvolto nella formazione di un breve governo locale ostile alla Serenissima e perciò giustiziato nel 1509 (su delibera del Consiglio dei Dieci, di cui lo stesso Aurelio era segretario dal 1507) insieme al genero, il nobile padovano Francesco Borromeo e sposo di Laura. Rimasta vedova, orfana di padre e privata della dote, aveva dovuto accettare di unirsi nuovamente in matrimonio con l’uomo che, di ceto sociale inferiore al suo, aveva firmato il mandato esecutivo di condanna nei confronti della sua famiglia e del marito. La restituzione della dote avveniva un giorno prima delle nozze: era l’atto formale che reintegrava la dignità della donna necessaria alla celebrazione del suo nuovo matrimonio, riscattandola e consentendole di rivendicare rango e ruolo di sposa esemplare. Fu forse questo che spinse Tiziano a cambiare il colore dell’abito della donna di sinistra, da rosso (come risulta dalle indagini diagnostiche condotte sul dipinto) a bianco: il colore della sposa.

Ogni elemento del dipinto fa eco a questa allegoria dell’amore coniugale, una delle prime di Tiziano.

Al centro della composizione sta un sarcofago, ornato con un fregio classico in cui è rappresentata una scena di castigazione dell’amore ferino: da sinistra, una figura maschile muove un’insidia a una fanciulla afferrata per un braccio; davanti a lei sta il bel cavallo privo di briglie (simbolo di passione incontrollata), frenato da una seconda figura maschile, quasi completamente coperta dal piccolo arbusto centrale; verso destra, alla presenza forse della stessa fanciulla, la violenza passionale viene punita con la fustigazione. L’acqua che riempie il sarcofago lo trasforma in fonte, e il getto rende fertile il prato: la morte si trasforma in vita, grazie alla forza generatrice (e temperante) di Amore, il fanciullino con le ali che mescola le acque. Sul sarcofago/fonte stanno sedute due figure femminili, simili al punto da considerarle gemelle. A sinistra, troviamo la donna vestita con gli abiti e gli attributi della sposa, la cintura simbolo dell’amore coniugale come anche il mirto e le roselline, attributi di Venere. Ai suoi piedi il terreno è un manto erboso morbido e fiorito. Dietro di lei si apre un paesaggio che fa eco al suo significato: vi si trovano la coppia di lepri (augurio di unione feconda) e la città sulla collina, che sottolinea la dimensione civile entro cui si colloca la condizione matrimoniale. A destra, la nudità dell’altra donna – appena coperta da un drappo bianco sul grembo arricchito da un altro, rosso, più ampio – allude alla sublimazione della verità e della bellezza divina, che non ha bisogno di orpelli: nella mano sinistra un vaso acceso della fiamma d’amore divino. Accanto a lei il terreno è arido, perché l’esercizio della virtù è difficile, e aspro, come uno spiazzo pietroso. Alle sue spalle, oltre la siepe che chiude il suo spazio simbolico, si scorgono due cavalieri intenti in attività di caccia, due cani che inseguono una lepre, un pastore con il gregge e una coppia di giovani amanti. Sullo sfondo, si apre una veduta su un paese (lagunare?) dominato da un campanile, che segna il tempo del quotidiano. Il gioco di sguardi tra le due donne finisce per richiamare l’osservatore: la nuda si volta verso la vestita, invitandola a percorrere la strada della virtus, difficile e separata dal mondo (la siepe); la donna abbigliata incontra direttamente gli occhi di chi la guarda, entrando dunque nella realtà, e attestando verso l’esterno la sua dimensione di donna e di sposa.

Le fonti e gli inventari ricordano le due donne per lo più come due Veneri, ma anche come personificazioni dell’Amore sacro e dall’Amore profano (antico titolo del dipinto ancora oggi utilizzato). Una celebre interpretazione in chiave neoplatonica (Erwin Panofsky, 1939 e 1969) le leggeva come Venere celeste e Venere volgare, o Venere ‘terrena’, e il Cupido veniva considerato simbolo dell’unione tra cielo e terra: il che ben si lega alla lettura del dipinto come allegoria matrimoniale, e del complesso rapporto tra virtus e voluptas.

Sebbene non si abbiano notizie certe sulla sua provenienza (forse dalla vendita della raccolta di Paolo Emilio Sfondrato, 1608), l’opera entra nella collezione Borghese con Scipione: è con ogni probabilità già ricordata nel 1613 (descritta nella Galleria di Scipione Francucci), e sicuramente è nella villa fuori porta Pinciana nel 1622-23, quando Antoon van Dyck la disegna nel suo taccuino di schizzi italiano conservato al British Museum. Nel corso della seconda metà del Seicento, come la maggior parte dei dipinti, la tela fu spostata nel palazzo di famiglia a formare la quadreria ammirata da curiosi e intendenti d’arte. Vi rimarrà per tutto il Settecento e, se si esclude il viaggio al seguito di Camillo e Paolina prima a Torino e poi a Parigi tra 1809 e 1816, per buona parte dell’Ottocento. Alla fine del secolo sarà quindi di nuovo trasferita nella villa.

 

Venere che benda Amore

Tiziano


Tiziano, Venere che benda Amore, 1565 circa olio su tela, cm 118 x 185 Roma, Galleria Borghese, inv. 170

 

Non si hanno notizie accertate sulla  committenza del dipinto, databile intorno al 1565: né documentarie né provenienti dai biografi contemporanei. Non trova tutti concordi l’ipotesi che l’opera fosse destinata ad Antonio Pérez, il segretario di Stato di Filippo II caduto poi in disgrazia, che possedeva un “quadro de la diosa Venus Ventando Los ojos A su hijo cupido y otras ninfas q le traen presentes”. La critica ha però sempre ritenuto questo “quadro”, registrato senza indicazione dell’autore nell’inventario di Pérez, quale copia (perduta) della tela oggi nella Galleria Borghese, una delle repliche e varianti delle fortunate invenzioni tizianesche licenziate dalla bottega.

La prima menzione certa dell’opera è romana, e già in casa Borghese. Nel 1613 viene ampiamente illustrata da Scipione Francucci nella sua Galleria e, sembra, dotata di una nuova cornice (conto di Annibale Durante per “una cornice indorata con li fogliami di rilievo intagliati data di vernice e sui filetti dorati serve per il quadro di Tiziano in Sala longa 8 alta 6”). Testimonianze così precoci della presenza di Venere che benda Amore nella quadreria Borghese hanno suggerito che avesse potuto far parte della vendita Sfondrato (1608), senza tuttavia alcuna certezza.

In occasione del suo soggiorno romano, tra il 1622 e il 1623, Van Dyck ritrae il dipinto nel suo taccuino di schizzi (Londra, British Museum), probabilmente nella villa dove è certamente attestato nel 1650. Come la gran parte della quadreria, nella seconda metà del Seicento anche questa tela viene trasferita nel palazzo di famiglia a Ripetta: nella villa fuori porta Pinciana verrà sostituita da una copia, ricordata da Domenico Montelatici nel 1700. A parte il passaggio torinese e parigino al seguito del principe Camillo e di Paolina Bonaparte tra 1808 e 1816, si conserverà nel palazzo fino alla fine dell’Ottocento. Nel 1891 è già di nuovo in villa: vi rimarrà, lasciando l’edificio in occasione di esposizioni temporanee (la prima nel 1935), e durante la guerra, trasferita nei sicuri ricoveri delle Marche e del Vaticano.

Nel dipinto sono rappresentate tre figure femminili e due Amori. A sinistra siede una donna vestita di bianco e ornata di gemme, gioielli e perle, identificata con Venere; è raffigurata in atto di voltarsi appena verso un Amore che le si appoggia sulla spalla. Al centro, un secondo Amore nasconde il capo tra le ginocchia della dea, impegnata a tenere i lembi di un nastro con cui Amore si trova bendato. A destra, due donne recano arco e frecce, similmente vestite: quella in primo piano, ha i capelli sciolti e mostra un seno scoperto.

La scena risulta da sempre di difficile interpretazione: negli inventari della collezione Borghese prevale col tempo l’identificazione delle donne come le “Tre Grazie”, mentre sul finire dell’Ottocento sembra preferirsi la denominazione di Venere che benda Amore. Nel corso del Novecento sono state avanzate letture più complesse, e un cenno particolare meritano gli imprescindibili saggi iconologici di Erwin Panofsky (1939 e 1969) che hanno influenzato molte generazioni di studiosi. È Panofsky ad introdurre un’interpretazione neoplatonica del dipinto, a identificare i due cupidi in Eros e Anteros (ovvero l’Amore passionale, cieco, e l’Amore divino, razionale ed elevato), e ad avanzare l’ipotesi che il quadro sia un’allegoria dell’amore coniugale in cui Venere ha il ruolo di protettrice della felicità matrimoniale. La critica è oggi generalmente concorde su questa lettura del dipinto in chiave matrimoniale: un’invenzione tizianesca intorno ai temi già praticati dell’amore coniugale che, sapientemente controllato da Venere, deve trovare un equilibrio tra Anteros ed Eros, tra un amore divino, razionale, e uno terreno, bendato. Il gesto sospeso di Venere, che tiene ben in evidenza i lembi del nastro di color giallo ma non compie né l’azione di stringere la benda né tantomeno di scioglierla, è ancora un segno visibile di regolata moderazione, oltretutto posto da Tiziano al centro della composizione. Venere assume le qualità della sposa, e ne indossa abito e attributi. Rimane tuttavia su un piano elevato e non mondano: forse per ragioni legate a una committenza non più portata a termine, Tiziano muta una prima idea, visibile in radiografia, in cui la donna era dotata di un elegante cappellino con una piuma.

Se Venere incarna l’allegoria del matrimonio, le due figure femminili (diversamente individuate come ninfe o Grazie) portano e offrono le armi di Amore e la loro nudità virginale.

La composizione è chiara e simmetrica, equilibrata, come lo deve essere Amore in questa allegoria matrimoniale. Per raggiungere questo risultato Tiziano modifica ulteriormente una prima composizione (visibile nella riflettografia all’infrarosso) che prevedeva una terza figura: una donna, sembra, che tiene in alto un vassoio o una cesta, cioè un tipo molto utilizzato nella produzione di questi anni. Realizzata ben oltre lo stato di abbozzo, anzi sufficientemente finita, fu cancellata perché evidentemente non più funzionale al significato allegorico che il maestro andava definendo.

In questa ricerca di equilibrio, e nell’eliminazione di una figura, Tiziano recupera anche un paesaggio, benché in secondo piano, al quale tuttavia conferisce la dignità di una posizione centrale, attribuendogli il ruolo di pausa, pressoché disabitata, e immobile, come le alte montagne, le sue, nel limite ultimo del dipinto.

 

Le tre età dell’uomo

Tiziano


Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato, Le tre età dell’uomo, da Tiziano, 1682 circa olio su tela, cm 93 x 153,5 Roma, Galleria Borghese, inv. 346

Il dipinto è una versione seicentesca, attribuita al Sassoferrato, delle Tre età che Tiziano esegue all’inizio del secondo decennio del Cinquecento e oggi presso la National Gallery of Scotland.

Come nell’originale tizianesco, la rappresentazione si svolge in un paesaggio. A sinistra una coppia di giovani è adagiata su un prato fiorito: il ragazzo è pressoché nudo, poggia il proprio flauto a terra e scambia intensamente il proprio sguardo con quello di una fanciulla con i capelli ornati da una coroncina di mirto. La ragazza ha due flauti: uno appena più vicino alle labbra, l’altro allusivo alla evidente tensione erotica che intercorre tra i due, protagonisti di un duetto musicale appena interrotto e sul punto di passare dall’esperienza musicale a quella amorosa. Sulla destra due putti dormono abbracciati, vegliati da un Amorino che sembra sorreggere il tronco di un albero secco. Poco più in là, un vecchio seduto tiene in mano un teschio, circondato da altri tre (e da alcune ossa) nell’esemplare Borghese, limitati a due nel dipinto di Edimburgo: è questa la più importante differenza compositiva tra i due quadri.

Nelle Tre età di Edimburgo Tiziano mette in scena la vita dell’uomo, che scorre all’insegna del sottile equilibrio tra voluptas e virtus, e che si svolge e riavvolge dalla fanciullezza (due sono i putti vegliati da Amore) alla maturità (due sono i giovani intenti in un rapporto amoroso), che nel vecchio genera solo rimpianto di inutile vanità (due sono i teschi su cui riflette), destinata a morire come tutte le cose. È un ciclo continuo, inevitabile, uguale a se stesso, all’interno del quale l’umanità è sempre di fronte a scelte universali, tra possibili cadute e bramata eternità: temi centrali nella produzione del giovane Tiziano, e diversamente declinati nell’attività più tarda e finale, come nella Ninfa e pastore di Vienna, presentata in questa esposizione.

Le radiografie del dipinto di Edimburgo, pubblicate nel 1971, hanno mostrato un’idea dell’opera diversa in origine, e vicina, soprattutto per il numero di teschi, proprio alle due versioni note della tela di Tiziano, pressoché identiche fra loro: gli esemplari Borghese e Doria Pamphilj.

Il tema è ampiamente dibattuto, e la critica ha avanzato la possibilità che dalla stessa bottega tizianesca fossero uscite almeno due versioni di questa allegoria sulla vita umana, di cui solo una giunta fino a noi, presente a Roma tra Cinque e Seicento. Da quest’ultima con ogni probabilità fu tratta la tela Doria, già registrata in collezione Aldobrandini nel 1603 come Tiziano e come tale ritenuta per quasi tutto il Seicento, in un contesto come quello romano in cui opere di bottega o perfino realizzate alla maniera del maestro circolavano e affollavano le collezioni aristocratiche e cardinalizie come Tiziano tout court, destando ammirazione degli amatori, sollecitando l’attenzione di artisti in viaggio o residenti, originando copie.

Entro questo orizzonte con ogni probabilità viene prodotto l’esemplare Borghese, forse all’inizio degli anni Ottanta del Seicento, quando a seguito della morte di Olimpia Aldobrandini si diede corso alla divisione dei beni tra i due eredi, in parte confluita nella quadreria Borghese, che deve essere stata l’occasione per far realizzare una copia del dipinto, rimasto al ramo Doria Pamphilj, ancora e allora ritenuto originale di Tiziano. Da ciò deriverebbero da un lato lo scarto stilistico tra le due versioni, dall’altro, al contrario, la somiglianza compositiva fin quasi alla sovrapposizione. In più, l’esemplare Borghese è ricordato nella collezione di famiglia solo dal 1700.

 


Breve biografia

Tiziano


Tiziano ha avuto una vita lunghissima, e numerosissimi sono i suoi capolavori, frutto di un’attività intensa durata più di settanta anni. Questa breve biografia dà dunque conto delle sue opere più significative, e non di tutte, dei più importanti committenti, dei principali eventi che lo hanno visto protagonista.

Tiziano nasce a Pieve di Cadore intorno al 1485 o forse anche prima, se si assume che la Paletta di Jacopo Pesaro (Anversa) sia realizzata in occasione della vittoria delle flotte navali di Alessandro VI contro i Turchi a Santa Maura nel 1502. È sicuramente maggiorenne nel 1508, quando le fonti lo ricordano attivo alla decorazione della facciata laterale del Fondaco dei Tedeschi. Nel 1511 ottiene il suo primo incarico documentato, gli affreschi con le Storie di sant’Antonio nella Scuola del Santo a Padova. Tra le opere di questo decennio vanno ricordati i suoi primi ritratti (Londra, National Gallery), la paletta con S. Marco in trono per la chiesa di Santo Spirito in Isola (oggi alla Salute, 1510), nonché Amor sacro e Amor profano (1514), e soprattutto la pala con l’Assunzione della Vergine per l’altare maggiore della chiesa dei Frari (1518). Nel corso degli anni Venti circoscrive quei rapporti di committenza che proseguiranno per molto tempo: con la Repubblica di Venezia (ritratti dei dogi e opere, perdute, per Palazzo Ducale), con il duca di Ferrara Alfonso I d’Este (i celebri “baccanali” destinati al “camerino d’alabastro”), ancora con la famiglia Pesaro (pala per la chiesa dei Frari, 1526), con il marchese e poi duca di Mantova Federico Gonzaga (dal quale ottiene la chiave di accesso alla corte imperiale), con Carlo V e il suo entourage (in particolare con Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e generale delle truppe imperiali).

Negli stessi anni stringe amicizia con Pietro Aretino, del quale realizza il prorompente Ritratto di Pietro Aretino (Firenze, Palazzo Pitti, 1545), donato da Tiziano all’amico letterato che a sua volta ne fa omaggio a Cosimo I de’ Medici.

A sigillo di un rapporto di committenza iniziato da tempo con il duca di Urbino, esegue nel 1538 i ritratti di Francesco Maria della Rovere e di Eleonora Gonzaga (Uffizi), mentre il loro figlio Guidobaldo entra in possesso della famosa Venere, cosiddetta appunto di Urbino (Firenze, Uffizi). Nel 1545 viaggia è Roma e lavora per Paolo III – di cui realizza fra l’altro lo straordinario ritratto con i nipoti (Capodimonte) – e ripetutamente per i Farnese.

Giunto ad Augsburg nel 1548 realizza alcuni ritratti per la corte, fra cui quello celebre di Carlo V a cavallo (Madrid, Prado). Il forte legame di Tiziano con la cerchia imperiale viene ulteriormente consolidato dal continuo rapporto instaurato con il principe Filippo, per il quale dipinge moltissime opere negli anni a venire fra cui le celebri “poesie” – le favole antiche tratte dalle Metamorfosi, nelle quali emerge uno stile rinnovato con pennellate più ampie – che Tiziano continuerà a spedire in Spagna fino al 1575.

Degno di particolare menzione è il magnifico notturno del Martirio di san Lorenzo per la chiesa dei Crociferi (oggi Gesuiti), portato a termine nel 1559.

Muore a Venezia il 27 agosto del 1576, e il giorno dopo viene sepolto ai Frari.

Nell’ultimo anno di vita lavora alla commovente Pietà dell’Accademia di Venezia, dove si rappresenta nei panni di san Girolamo inginocchiato davanti al Cristo morto. Quest’opera e l’impressionante Marsia del castello di Kroměříž presentano uno smembramento del tessuto pittorico che caratterizza la sua estrema fase creativa, e costituiscono di fatto un testamento artistico, e umano, del grande maestro.