ARTEMISIA, UNA STORIA DI PITTURA E DI CORAGGIO

Artemisia Gentileschi
Artemisia Gentileschi è, tra le artiste di ogni tempo, quella da sempre vista come emblema della rivoluzione femminsta. È cosa nota che Artemesia fu vittima di uno stupro, atto ignobile a cui la ragazza si ribellò denunciando pubblicamente la violenza subita e per questo fu vittima due volte: del bastardo che abusò di lei e del mondo barbaro, bigotto e retrogrado che la giudicò.
Penso sia interessante, a questo punto, qualche riflessione. Figlia d’arte, il padre Orazio era ed uno dei più stimati pittori dell’epoca – siamo nel 1600, nella Roma turbata dalle pitture rivoluzionarie di Caravaggio, di cui peraltro Orazio era amico e che sicuramente la piccola Artemisia vide girovagare in casa. Forse fu gioco, forse per destino, Artemisa coltivò sin da piccola l’amore per la pittura e, cosa rara, ebbe la fortuna di avere un padre che, invece di relegarla al ruolo di donna – impensabile a quell’epoca che una ragazza fosse ammessa agli studi di pittura, i colori e i pennelli erano cosa da maschi! – le insegnò con pazienza e passione l’arte del dipingere. Non potendo, per quanto appena detto, iscrivere la figli ad una scuola, non restò altra strada che affidarla alle cure e all’insegnamento degli amici pittori, che spesso tra l’altro si ritrovano a discutere, bere e giocare in casa di Orazio. Tra questi vi era Agostino Tassi, valente pittore ma soprattutto uomo a cui piacevano le donne e i denari. E possiamo immaginarlo, Agostino, affascinante e navigato, vantarsi con la giovane Artemisia di arte e di pittura. Non ci vuole tanto, a questo punto, immaginare quale presa le parole e le vanterie dell’uomo possano avere avuto sulla ragazza, nutrita sin da piccola di colori e di vernici. Ed è anche facile immaginare Artemisia, bella e innamorata di quell’uomo che le parlava di nobili committenti e di quadri per gli altari.
Rose e cuori, sognava la giovane Artemisia. Trovò invece spine e dolore: un giorno, assente il padre, Agostino la violentò. Come andarono le cose lo lasciamo dire direttamente ad Artemisia: «Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne». Non sono, purtroppo, le parole di un romanzo, bensì le la dichiarazioine della ragazza al processo che ella dovette affrontare a seguito della denuncia di stupro.
Eh sì, perché quattrocento anni fa, intentare un processo per stupro non era una cosa da poco: difficile far credere che una ragazza, non più vergine e peraltro non sposata, avesse potuto ricevere violenza, peraltro a casa propria; molto più facile dubitare dell’onestà della ragazza. E poi, le cose, se proprio, andavano risolte col ferro e con la spada, non davanti a una corte do uomini togati.
Anche perché Agostino, in seguito allo stupro, aveva promesso alla ragazza che l’avrebbe sposata: insomma, il classico “matrimonio riparatore” e il “disonore” veniva cancellato, restando lo stupro solo un cattivo ricordo da far rabbrividire nei momenti cupi. E la povera Artemisia ci aveva creduto davvero, a quel bastardo: omnia vincit amor! L’amore vince tutto! Ma poi la verità: il bastardo, oltre che stupratore, era anche bugiardo, ed aveva già moglie. Non restò allora alla ragazza “disonorata” di confessare la triste vicenda al padre, il quale intentò contro l’amico traditore un processo.
Senonchè, nel 1600, un processo per stupro, addirittura nella Roma papalina, prevedeva un rituale a dir poco disumano: la parola della donna andava verificata attentamente: la deposizione della ragazza stuprata era previsto fosse fatta sotto tortura, per verificarne l’attendibilità e al contempo “purificarla dal disonore subito”. Ed indovinate quale fu la tortua inflitta ad Artemisia? Il tormento “dei sibilli”, ossia lo schiacciamento delle dita. Quale pena peggiore per chi, con le dita, ci dipinge? Legati i polsi per evitare che la ragazza si divincolasse, e poste delle cordicelle tra le dita delle mani congiunte, mentre i giudici, con tutta calma, le rivolgevano le domande, un randello girava facendo stringere sempre più le corde attorno alle falangi, stritolandole pian piano. Ad ogni nuovo giro di vite, le dita si gonfiavano e il sangue si bloccava. In tal modo, dicevano gli inquisitori, la tortura avrebbe “emendato la colpa”. Al dolore fisico si aggiunse il dolore dell’animo: Artemisia fu costretta a sottoporsi ad una visita ginecologica, dalla quale, è naturale, si evinse che non era più vergine: ciò però non al fine di provarne l’innocenza, bensì per confermare il dubbio per una condotta disinibita, arrivando qualcuno a mettere in giro voci di rapporti incestuosi con il padre Orazio o di condotte disdicevoli con amanti.
L’epilogo del processo fu la condanna di Agostino Tassi ad otto mesi di carcere (l’uomo peraltro era già stato accusato sia di incesto con la cognata sia di aver commissionato il tentato omicidio della moglie; e, a conferma del suo diplorevole essere, fu in seguito ancora accusato di sodomia, furti e debiti).
Quanto ad Artemisia, nonostante la provata innocenza e la “vittoria” in tribunale (se vittoria può mai dirsi), fu costretta a lasciare Roma. La ragazza andò quindi a Firenze, dove si affermò a tal punto come pittrice da diventare la prima donna membro dell’Accademia fiorentina delle arti del disegno. Visse poi a Napoli e andò persino in Inghilterra. Mantenne contatti epistolari con personaggi eminenti della cultura, tra cui Galileo Galilei.
Ma, nonostante il successo, Artemisia non riuscì mai a dimenticare quel maledetto pomeriggio. I suoi occhi, il suo terrore, li ha riversati negli occhi di Susanna, che cerca di coprirsi dallo sguardo invadente dei vecchioni. Per passare poi al disgusto ed alla rabbia della Giuditta, intenta a decapitare quell’Oloferne nei cui occhi senza vita e nell’urlo di terrore Artemisia finalmente trova vendetta per quell’infame gesto.
Ma io Artemisia voglio ricordarla così, con l’autoritratto che lei stessa ci ha lasciato: una ragazza che dipinge.