Biografia
Artemisia Lomi Gentileschi nacque a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio e Prudenzia di Ottaviano Montoni, primogenita di sei figli. Orazio Gentileschi era un pittore nativo di Pisa dagli iniziali stilemi tardo-manieristi che, stando al critico Roberto Longhi, prima di trasferirsi a Roma «[…] non dipingeva, ma lavorava semplicemente di pratica, a fresco» (Longhi).
Fu solo dopo l’approdo nell’Urbe che la sua pittura raggiunse il suo apice espressivo, risentendo grandiosamente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio, dal quale derivò l’abitudine di adottare modelli reali, senza idealizzarli o edulcorarli e, anzi, trasfigurandoli in una potente quanto realistica drammaticità.
Roma era in quel momento un grande centro artistico e la sua atmosfera satura di cultura e di arte costituiva un ambiente unico in Europa. La Riforma Cattolica, in effetti, costituì per l’Urbe un’eccezionale spinta propulsiva, e portò al restauro di numerose chiese – e, dunque, a un sostanziale incremento di committenze che coinvolse tutte le maestranze impegnate in quei cantieri – e a svariati interventi urbanistici, i quali sovrapposero all’antica e angusta città medievale una nuova maglia funzionale di strade scandite da immense piazze e delineate da sfarzose residenze gentilizie.
Roma era molto fervente anche dal punto di vista sociale: nonostante l’alta densità di mendicanti, prostitute e ladri, in città affluivano numerosissimi i pellegrini (con l’evidente intento di rafforzare la propria fede visitando i vari luoghi sacri) e di artisti, di cui molti fiorentini (durante il Cinquecento, infatti, ben due Medicei ascesero al soglio pontificio, rispettivamente sotto il nome Leone X e Clemente VII).
Fanciullezza
Battezzata due giorni dopo la sua nascita nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, la piccola Artemisia divenne orfana di madre nel 1605.
Fu probabilmente in questo periodo che ella si avvicinò alla pittura: stimolata dal talento del padre, la bambina spesso lo guardava affascinata mentre si cimentava con i pennelli, sino a maturare un’ammirazione incondizionata e un lodevole desiderio di emulazione. La formazione della Gentileschi avvenne, nell’ambito artistico romano, proprio sotto la guida del padre, che fu perfettamente in grado di valorizzare al massimo il precoce talento della figlia.
Ripercorrendo l’iter didattico proprio degli aspiranti pittori del tardo Rinascimento, Orazio introdusse la figlia all’esercizio della pittura innanzitutto insegnandole come preparare i materiali utilizzati per la realizzazione dei dipinti: la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli con setole e pelo animale, l’approntamento delle tele e la riduzione in polvere dei pigmenti furono tutte perizie che la piccola metabolizzò nei primi anni. Acquisita una certa dimestichezza con gli strumenti del mestiere, Artemisia perfezionò le proprie doti pittoriche soprattutto attraverso la copia delle xilografie e dei dipinti che il padre aveva sotto mano – non era raro, per gli atelier dell’epoca, possedere incisioni di personaggi come Marcantonio Raimondi e Albrecht Dürer – e, contestualmente, subentrò alla madre ormai defunta alle varie responsabilità della conduzione familiare, dalla gestione della casa e del vitto alla custodia dei suoi tre fratelli minori. Frattanto, la Gentileschi recepì stimoli cruciali anche dalla vibrante scena artistica capitolina: importante fu la conoscenza della pittura di Caravaggio, artista che aveva stupito il pubblico realizzando gli scandalosi dipinti nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, inaugurata nel 1600, quando Artemisia non aveva che sette anni. Alcuni critici del passato hanno persino avanzato l’ipotesi di una frequentazione diretta tra la Gentileschi e Caravaggio, che spesso si recava nello studio di Orazio per procurarsi le travi da sostegno per le proprie opere.
Molti, tuttavia, ritengono quest’eventualità poco probabile alla luce delle pressanti restrizioni paterne, a causa delle quali Artemisia imparò la pittura confinata entro le mura domestiche, non potendo fruire degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi: la pittura, all’epoca, era infatti considerata una pratica quasi esclusivamente maschile, e non femminile. Ciò malgrado, la Gentileschi subì ugualmente il fascino della pittura caravaggesca, anche se filtrato attraverso le pitture del padre.
Nel 1608-1609 il rapporto tra Artemisia e il padre si trasformò da un discepolato a una fattiva collaborazione: la Gentileschi, infatti, iniziò a intervenire su alcune tele paterne, per poi produrre piccole opere d’arte autonomamente (anche se di attribuzione dubbia), dove mostra di aver assimilato e interiorizzato gli insegnamenti del maestro. Fu nel 1610 che produsse quella che secondo alcuni critici è la tela che suggella ufficialmente l’ingresso della Gentileschi nel mondo dell’arte: si tratta di Susanna e i vecchioni. Nonostante i diversi dibattici critici – molti, infatti, sospettano a ragione aiuti da parte del padre, determinato a far conoscere le precoci doti artistiche della figlia-allieva – l’opera si può ben considerare il primo cimento artistico di rilievo della giovane Artemisia. La tela lascia inoltre intravedere come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia stata indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci.
Anche se la scarsa documentazione pervenuta non offre informazioni particolarmente dettagliate sulla formazione pittorica di Artemisia, possiamo ben ipotizzare che abbia avuto inizio nel 1605 o nel 1606 e che sia culminata intorno al 1609. Questa datazione viene avallata da diverse fonti: innanzitutto, una celebre missiva che Orazio inviò alla granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612, nella quale egli affermava con vanto che la figlia in soli in tre anni di apprendistato aveva raggiunto una competenza equiparabile a quella di artisti maturi:
«Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere»
Da questa lettera, dunque, si può facilmente dedurre che la Gentileschi sia divenuta artisticamente matura tre anni prima del 1612: nel 1609, per l’appunto. A favore di questa tesi interviene un’altra fonte, ovvero la vasta documentazione che registra le varie committenze rivolte a Orazio Gentileschi successive al 1607: ciò lascia supporre proprio che la figlia abbia iniziato a collaborare con lui a partire da questa data circa. Certo è che la Gentileschi nel 1612 era ormai diventata un’esperta pittrice, a tal punto che destò persino l’ammirazione di Giovanni Baglione, uno dei suoi biografi più noti, il quale scrisse che: «Lasciò egli figliuoli, ed una femmina, Artemisia nominata, alla quale egli imparò gli artificj della pintura, e particolarmente di ritrarre dal naturale, sicché buona riuscita ella fece, e molto bene portossi»
(Giovanni Baglione)
Lo stupro – Artemisia violentata
Abbiamo avuto modo di vedere come la Gentileschi sia stata avviata assai precocemente all’attività pittorica. Questo suo innato talento per le Belle Arti fu motivo d’orgoglio e di vanto per il padre Orazio, che nel 1611 decise di allocarla sotto la guida di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil con cui collaborava alla realizzazione della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Agostino «lo smargiasso» – come era sovente soprannominato – era sì un pittore talentuoso, ma aveva un carattere sanguigno e iroso e dei trascorsi più che burrascosi: oltre a essere coinvolto in diverse disavventure giudiziarie, era un furfantesco scialacquatore e per di più fu anche mandante di diversi omicidi. Ciononostante, Orazio Gentileschi aveva grande stima di Agostino, che frequentava assiduamente la sua dimora, e – anzi – fu felicissimo quando accettò di iniziare Artemisia alla prospettiva.
Gli eventi, tuttavia, presero una piega tutt’altro che piacevole. Tassi, dopo diversi approcci, tutti rifiutati, approfittando dell’assenza di Orazio, violentò Artemisia, nel 1611. Questo tragico evento influenzò in modo drammatico la vita e l’iter artistico della Gentileschi. Lo stupro si consumò nell’abitazione dei Gentileschi in via della Croce, con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e di una certa Tuzia, vicina di casa che, in assenza di Orazio, era solita accudire la ragazza. Artemisia descrisse l’avvenimento con parole tremende:
«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne»
(Artemisia Gentileschi)
Il processo
Dopo aver violentato la ragazza Tassi arrivò persino a blandirla con la promessa di sposarla, così da rimediare al disonore arrecato. Bisogna ricordare che all’epoca vi era la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale qualora fosse stato seguito dal cosiddetto «matrimonio riparatore», contratto tra l’accusato e la persona offesa: d’altronde, all’epoca, si pensava che la violenza sessuale ledeva una generica moralità, senza offendere principalmente la persona, nonostante questa venisse coartata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale.
Artemisia cedette dunque alle lusinghe del Tassi e si comportò more uxorio, continuando a intrattenere rapporti intimi con lui, nella speranza di un matrimonio che mai arriverà. Orazio, dal canto suo, tacque sulla vicenda, nonostante Artemisia l’avesse informato sin da subito. Fu solo nel marzo del 1612, quando la figliola scoprì che Tassi era già coniugato, e quindi impossibilitato al matrimonio, che papà Gentileschi ribollì per l’indignazione e, nonostante i vincoli professionali che lo legavano al Tassi, indirizzò un’infuocata querela a papa Paolo V per sporgere denuncia al suo perfido collega, accusandolo di aver deflorato la figlia contro la sua volontà. La petizione recitava così:
«Una figliola dell’oratore [querelante] è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo olre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sue chimere abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et pechè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento»
Fu così che ebbe inizio la vicenda processuale. La Gentileschi era ancora profondamente traumatizzata dall’abuso sessuale, che non solo la limitava sotto il profilo professionale, ma la mortificava come persona e, per di più, oltraggiava il buon nome della famiglia. Ella, tuttavia, affrontò il processo con una notevole dose di coraggio e forza di spirito: ciò non fu cosa da poco, considerando che l’iter probatorio fu tortuoso, complicato e particolarmente aggressivo. Il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, infatti, fu costantemente compromesso dall’impiego di falsi testimoni che, incuranti dell’eventualità di un’accusa per calunnia, arrivarono a mentire spudoratamente sulle circostanze conosciute pur di danneggiare la reputazione della famiglia Gentileschi.
Artemisia, secondo la prassi, fu inoltre obbligata numerose volte a visite ginecologiche lunghe e umilianti, durante le quali il suo fisico fu esposto alla morbosa curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio incaricato di redigerne il verbale: le sedute, in ogni caso, accertarono un’effettiva lacerazione dell’imene avvenuta quasi un anno addietro. Per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese, le autorità giudiziarie disposero persino che la Gentileschi venisse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura, così da sveltire – secondo la mentalità giurisdizionale imperante all’epoca – l’accertamento della verità. Il supplizio scelto per l’occasione era quello cosiddetto «dei sibilli», e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l’azione di un randello, si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Con questa drammatica tortura Artemisia avrebbe rischiato di perdere le dita per sempre, danno incalcolabile per una pittrice della sua levatura. Lei, tuttavia, voleva vedere riconosciuti i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a patire, non ritrattò la sua deposizione. Atroci furono le parole che rivolse ad Agostino Tassi quando le guardie le stavano avvolgendo le dita con le cordicelle: «Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!».
Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a infliggergli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. Com’è prevedibile, lo smargiasso optò per l’allontanamento, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni prezzolati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti». Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.[12]
A Firenze
Il 29 novembre 1612, giusto il giorno successivo allo sconfortante epilogo del processo, Artemisia Gentileschi convolò a nozze con Pierantonio Stiattesi, un pittore di modesta levatura che «[…] ha la fama d’uno che vive d’espedienti più che del suo lavoro d’artista»: le nozze, celebrate nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, furono completamente predisposte da Orazio, il quale volle organizzare un matrimonio riparatore, in pieno ossequio con la morale dell’epoca, in modo da restituire ad Artemisia, violentata, ingannata e denigrata dal Tassi, uno status di sufficiente onorabilità. Dopo aver firmato il 10 dicembre dello stesso anno una procura al fratello notaio Giambattista, cui delegò la gestione dei propri affari economici romani, Artemisia seguì immediatamente lo sposo a Firenze, così da lasciarsi definitivamente alle spalle un padre troppo opprimente e un passato da dimenticare.
Lasciare Roma fu una scelta inizialmente angosciosa, ma immensamente liberatoria per la Gentileschi, che nella città medicea conobbe un lusinghiero successo. Firenze in quel periodo stava attraversando un periodo di vivace fermento artistico, soprattutto grazie alla politica illuminata di Cosimo II, abile governatore che si interessava con grande sensibilità anche di musica, poesia, scienza e pittura, rivelando un gusto contagioso in particolare per il naturalismo caravaggesco. La Gentileschi venne introdotta nella corte di Cosimo II dallo zio Aurelio Lomi, fratello di Orazio e, una volta approdata nell’ambiente mediceo, impegnò le sue migliori energie per raccogliere attorno a sé gli ingegni culturalmente più vivi, le intelligenze più aperte, intessendo una fitta rete di relazioni e di scambi. Fra i suoi amici fiorentini vi erano le più eminenti personalità del tempo, fra cui Galileo Galilei, con il quale intraprese una fitta corrispondenza epistolare, e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del celebre artista. Proprio quest’ultimo fu una figura di primaria importanza per la maturazione pittorica di Artemisia: gentiluomo di corte profondamente immerso nelle vicende artistiche del suo tempo, il Buonarroti introdusse la Gentileschi nella crème del bel mondo fiorentino, le procurò numerosissime commissioni e la mise in contatto con altri potenziali clienti. Di questo fecondo sodalizio artistico e umano – basti pensare Artemisia definiva Michelangelo «compare» e se ne riteneva una legittima «figliola» – ci rimane la luminosa Allegoria dell’Inclinazione, opera commissionata dal Buonarroti alla giovane pittrice cui destinò la bella cifra di trentaquattro fiorini. Il trionfale riconoscimento dei meriti pittorici della Gentileschi culminò il 19 luglio 1616, quando venne ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, istituzione presso la quale sarebbe rimasta iscritta fino al 1620: fu la prima donna a godere di tale privilegio. Notevole era anche il legame della pittrice con l’attività mecenatistica di Cosimo II de’ Medici, il quale in una missiva del marzo 1615 indirizzata al Segretario di Stato Andrea Cioli riconobbe apertamente che si trattava di «un’artista ormai molto conosciuta a Firenze».
Il soggiorno in Toscana, insomma, fu molto fecondo e prolifico per la Gentileschi, che in questo modo ebbe finalmente modo di affermare per la prima volta la sua personalità pittorica: basti pensare che il cognome adottato durante gli anni fiorentini fu «Lomi», in riferimento a una chiara volontà di emanciparsi dalla figura del padre-padrone. Lo stesso non si può dire per la sua vita privata, che al contrario fu molto avara di soddisfazioni. Lo Stiattesi, infatti, era molto algido dal punto di vista affettivo, e apparve presto lampante come il loro matrimonio fosse regolato da rapporti di pura convenienza piuttosto che dall’amore. Egli, d’altronde, si rivelò un fallimentare gestore del patrimonio finanziario familiare, e arrivò ad accumulare ingenti debiti. Artemisia, nel tentativo di ripristinare una situazione economica decorosa, si ritrovò costretta persino ad appellare la benevolenza di Cosimo II de’ Medici per ripianare una sanzione di mancato pagamento. Il matrimonio con lo Stiattesi, in ogni caso, fu coronato dalla nascita del primogenito Giovanni Battista, seguito da Cristofano (8 novembre 1615) e dalle figlie Prudenzia (spesso nominata come Palmira; nata il 1º agosto 1617) e Lisabella (13 ottobre 1618-9 giugno 1619).
Di nuovo a Roma e poi a Venezia
Ben presto, tuttavia, la Gentileschi maturò il proposito di lasciare la Toscana e raggiungere nuovamente la natia Roma. Questo desiderio di fuga non fu dettato solo dal progressivo deterioramento dei rapporti con Cosimo II, ma anche dalle quattro gravidanze e dall’impressionante situazione debitoria derivata dallo stile di vita lussuoso del marito, che aveva contratto passività finanziarie con carpentieri, bottegai, farmacisti. A coronare degnamente questa serie di avvenimenti vi fu lo scandalo che scoppiò quando si seppe che Artemisia aveva intrecciato una relazione clandestina con Francesco Maria Maringhi.
Furono tutti questi sintomi di un disagio che Artemisia percepiva come risolvibile solo mediante il rimpatrio a Roma: sarebbe comunque rimasta intimamente legata alla città toscana, come emerge dalle varie missive inviate ad Andrea Cioli cui chiese invano di ottenere un invito a Firenze sotto la protezione dei Medici. Ciò, tuttavia, non bastò a dissuaderla dal ritornare stabilmente a Roma. Dopo aver chiesto nel 1620 l’autorizzazione del granduca per recarsi nell’Urbe così da rimettersi da «molte mie indisposizioni passate alle quali sono giunti anche non pochi travagli dalla mia casa e famiglia», l’artista ritornò nella Città Eterna nello stesso anno, e nel 1621 segue il padre Orazio a Genova ( si conservano committenze private di Artemisia nella collezione Cattaneo Adorno), a Genova conosce Van Dick e Rubens, poi nel 1622 si insediò in un comodo appartamento a via del Corso con la figlia Palmira, il marito e alcune domestiche: l’avvenuto rimpatrio ci è confermato da una tela del 1622 denominata Ritratto di un gonfaloniere, dipinto noto tra l’altro per essere una delle sue poche opere datate. Ormai la Gentileschi non era più considerata una giovane pittrice inesperta e impaurita, così come apparve agli occhi dei Romani dopo la ratifica del processo contro il Tassi: anzi, al suo ritorno nella Città Eterna molti protettori, appassionati d’arte e pittori, sia italiani sia stranieri, ammiravano con sincero entusiasmo il suo talento artistico. Non più condizionata dall’opprimente figura del padre, inoltre, Artemisia in questi anni poté finalmente frequentare assiduamente l’élite artistica dell’epoca, nel segno di un’interazione più libera con il pubblico e i colleghi, ed ebbe agio anche di scoprire per la prima volta l’immenso patrimonio artistico romano, sia quello classico e protocristiano sia quello dell’arte a lei contemporanea (ricordiamo che Orazio la recludeva in casa per via del suo essere donna). A Roma, infatti, la Gentileschi ebbe modo di stringere relazioni amicali con eminenti personalità dell’arte, e sfruttò al massimo le possibilità offerte dal milieu pittorico romano per ampliare i propri orizzonti figurativi: ebbe intensi contatti soprattutto con Simon Vouet e, probabilmente, anche con Massimo Stanzione, Ribera, Manfredi, Spadarino, Grammatica, Cavarozzi e Tournier. Siamo ben lungi, tuttavia, dal poter ricostruire agevolmente i vari sodalizi artistici intrecciati durante questo secondo soggiorno romano dalla Gentileschi:
«A tutt’oggi abbiamo un quadro ancora incompleto della sua cerchia artistica e la speranza è che in futuro affiorino altri documenti in grado di illuminare ulteriormente questo lato del suo periodo romano. Dalla recente scoperta delle lettere di Artemisia fatta da Francesco Solinas emerge che era un’attiva corrispondente e l’augurio è che possono venire alla luce altri tesori d’archivio analoghi»
I fecondi esiti di questo soggiorno romano sono cristallizzati nella Giuditta con la sua ancella, tela oggi custodita a Detroit e omonima di un’altra sua opera del precedente periodo fiorentino. Nonostante la solida reputazione artistica raggiunta, la forte personalità e la rete di buone relazioni, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu tuttavia così ricco di commesse come avrebbe desiderato. L’apprezzamento della sua pittura era forse circoscritto alla sua capacità di ritrattista e alla sua abilità di mettere in scena le eroine bibliche: erano a lei precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare. Altrettanto difficile, per l’assenza di fonti documentali, è seguire tutti gli spostamenti di Artemisia in questo periodo. È certo che tra il 1627 e il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono entusiasticamente le qualità di pittrice.
Vale la pena, infine, fare qualche cenno in merito al presunto viaggio a Genova che la Gentileschi avrebbe condotto in questo periodo al seguito del padre Orazio. Si è ipotizzato, su basi congetturali, che Artemisia abbia seguito il padre nella capitale ligure (anche per spiegare il perdurare di una affinità di stile che, ancor oggi, rende problematica l’attribuzione di taluni quadri all’uno o all’altra); non vi sono mai state, tuttavia, sufficienti prove al riguardo, e nonostante vari critici in passato siano stati affascinati dall’ipotesi di un viaggio di Artemisia nella Superba, oggi quest’eventualità è definitivamente sfumata, anche alla luce di diversi ritrovamenti documentari e pittorici. Genova, d’altronde, non viene menzionata neanche quando la Gentileschi, rivolgendosi a don Antonio Ruffo in una lettera datata 30 gennaio 1639, enumera le varie città nelle quali ha soggiornato durante la sua vita: «Qualunque parte io sono stata mi è stato pagato cento scudi l’una la figura tanto a Fiorenza, quanto a Venetia e quanto a Roma e a Napoli».
Napoli e la parentesi inglese
Nell’estate del 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere, in quella città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e più ricche possibilità di lavoro. La Napoli del tempo, oltre a essere capitale del viceregno spagnolo e la seconda metropoli europea per popolazione dopo Parigi, era costituita da un eminente ambiente culturale, che aveva visto nel secolo precedente l’affermarsi di figure come Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Giovan Battista Marino. Serbava, inoltre, tracce di un grandissimo fervore artistico che vi aveva accentrato artisti di grande nome, primi fra tutti Caravaggio, Annibale Carracci, Simon Vouet; vi lavoravano in quegli anni José de Ribera e Massimo Stanzione (da lì a poco vi sarebbero approdati anche il Domenichino, Giovanni Lanfranco e altri ancora).
Poco più tardi il trasferimento nella metropoli partenopea fu definitivo e lì l’artista sarebbe rimasta – salvo la parentesi inglese e trasferimenti temporanei – per il resto della sua vita. Napoli (pur con qualche costante rimpianto per Roma) fu dunque per Artemisia una sorta di seconda patria nella quale curò la propria famiglia (a Napoli maritò infatti, con appropriata dote, le sue due figlie), ricevette attestati di grande stima, fu in buoni rapporti con il viceré Duca d’Alcalá, ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti (a cominciare da Massimo Stanzione, per il quale si deve parlare di un’intensa collaborazione artistica, fondata su una viva amicizia e su evidenti consonanze stilistiche). A Napoli, per la prima volta, Artemisia si trovò a dipingere tre tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli: San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, l’Adorazione dei Magi e Santi Procolo e Nicea. Sono del primo periodo napoletano anche opere quali la Nascita di San Giovanni Battista al Prado, Corisca e il satiro in collezione privata. In queste opere Artemisia dimostra, ancora una volta, di sapersi aggiornare sui gusti artistici del tempo e di sapersi cimentare con altri soggetti rispetto alle varie Giuditte, Susanne, Betsabee, Maddalene penitenti.
Nel 1638 Artemisia si recò a Londra, presso la corte di Carlo I. Quello inglese fu un soggiorno che fece interrogare per lungo i critici, perplessi dalla fugacità del viaggio, peraltro scarsamente documentato. Artemisia, infatti, era ormai saldamente installata nel tessuto sociale e artistico di Napoli, dove spesso riceveva committenze prestigiose da mecenati illustri, come Filippo IV di Spagna. La necessità di preparare la dote per la figlia Prudenzia, prossima a maritarsi nell’inverno del 1637, la spinse probabilmente a cercare un modo per accrescere il proprio gettito finanziario. Fu per questo motivo che, dopo aver sondato invano la possibilità di installarsi presso varie corti italiane, decise di recarsi a Londra, senza tuttavia troppo entusiasmo: la prospettiva di un soggiorno inglese, evidentemente, non le appariva per nulla attraente.
A Londra la pittrice raggiunse il padre Orazio, che nel frattempo era diventato pittore di corte e aveva ricevuto l’incarico della decorazione di un soffitto (allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti) nella Casa delle Delizie della regina Enrichetta Maria, a Greenwich. Dopo tanto tempo padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica, ma nulla lascia pensare che il motivo del viaggio londinese fosse solo quello di venire in soccorso all’anziano genitore. Certo è che Carlo I la reclamava alla sua corte e un rifiuto non era possibile. Carlo I era un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche pur di soddisfare i suoi desideri artistici. La fama di Artemisia doveva averlo incuriosito, e non è un caso che nella sua collezione fosse presente una tela di Artemisia di grande suggestione, l’Autoritratto in veste di Pittura. Artemisia ebbe dunque a Londra una sua attività autonoma, che continuò per un po’ di tempo anche dopo la morte del padre nel 1639, anche se non sono note opere attribuibili con certezza a questo periodo.
Sappiamo che nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia aveva già lasciato l’Inghilterra, dove d’altronde non aveva più senso restare una volta morto il padre. Poco o nulla si sa degli spostamenti successivi. È un fatto che nel 1649 fosse nuovamente a Napoli, in corrispondenza con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia che fu suo mentore e buon committente in questo secondo periodo napoletano. L’ultima lettera al suo mentore che noi conosciamo è del 1650 e testimonia come l’artista fosse ancora in piena attività. Artemisia morì nel 1653. Esempi di opere ascrivibili a questo secondo periodo napoletano sono una Susanna e i vecchioni oggi a Brno e una Madonna e Bambino con rosario conservata all’El Escorial. Artemisia fu seppellita presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, sotto una lapide che recitava due semplici parole: «Heic Artemisia». Attualmente questa lapide, così come il sepolcro dell’artista, risulta perduta in seguito alla ricollocazione dell’edificio.[25] Sinceramente pianta dalle due figlie superstiti e da pochi intimi amici, i detrattori non persero invece occasione per colpirla con lo scherno. Tristemente noto è il sonetto steso da Giovan Francesco Loredano e Pietro Michiele, che recita così:
«Co’l dipinger la faccia a questo e a quello / Nel mondo m’acquistai merto infinito / Nel l’intagliar le corna a mio marito / Lasciai il pennello, e presi lo scalpello / Gentil’esca de cori a chi vedermi / Poteva sempre fui nel cieco Mondo; / Hor, che tra questi marmi mi nascondo, / Sono fatta Gentil’esca de vermi»
(Giovan Francesco Loredano, Pietro Michele[26])
«Oggi basta fare il nome di Artemisia Gentileschi per evocare una pittura drammatica, popolata di energiche figure femminili rappresentate in modo diretto e intransigente, e che si rapporta e si integra con gli eventi della vita dell’artista»
(Judith Walker Mann)